Seconda parte del diario di viaggio nella terra tra il Mediterraneo e il deserto
Di Francesco Rapaccioni
Reportage fotografico di Paolo Properzi

La regione di Tiddis era, in epoca romana, il granaio dell’impero e il paesaggio pare immutato nei secoli: distese di campi di grano a perdita d’occhio, le colline ondulate di verde con diverse tonalità risaltano sulla terra marrone scuro e sulle rocce rosse isolate delle montagne. Tiddis è arroccata sul costone ripido di una montagna. Il cardo, solitamente rettilineo, dopo la porta con arco semplicissimo a tutto sesto, compie un paio di curve a gomito, in ripida salita, passando accanto a un tempio del dio Mitra con un grosso fallo scolpito su una pietra squadrata; poi, superando un secondo arco, si arriva a una terrazza artificiale che dà accesso ai templi principali, una sorta di minuscolo foro a cui si appoggia un edificio termale sovrastato da serbatoi comunicanti, lunghi e stretti come corsie di una piscina olimpionica, ancora rivestiti del materiale impermeabilizzante.

L’ingresso di Timgad sembra l’accesso al nulla, fra edifici abbandonati o non ancora completati, il cartello dell’Unesco dipinto a mano libera, bianco su sfondo nero. Ma la città è indescrivibile, la più bella di tutto il Mediterraneo, una selva di colonne perse nel reticolato di cardo, decumani e vie minori lastricate con le pietre originali (addirittura sulle principali, dove si affacciavano le botteghe, ci sono impressi i segni delle ruote dei carri adibiti al trasporto delle merci). Timgad a un primo sguardo impressiona per l’arco di Traiano, con chiare funzioni celebrative e non difensive, e per il teatro, miracolosamente intatto, persino nelle iscrizioni dedicatorie, ma poi l’occhio si abitua e coglie le domus perfettamente leggibili in ogni singolo ambiente, le basiliche paleocristiane che hanno riadattato edifici preesistenti, le tante iscrizioni integre che ricordano benefattori o amministratori o imperatori. Piccoli fiori di malva, violacei, crescono tra le pietre che lastricano le strade e oscillano al vento che preclude al temporale e accompagna nuvole scurissime. Io che vorrei togliermi le scarpe e camminare a piedi nudi su queste pietre coi segni della storia e di una vita antica. Nessuno in vista, nessuna parola: solo il silenzio del tempo. E il vento, che parla una lingua nota.

Dell’epoca preromana restano ben visibili in Algeria due tombe monumentali, una, più grande e più nota vicino Tipasa (giunta a noi come “Tomba della Cristiana”), e una a Medracen, visibile da lontano nella pianura sabbiosa: una specie di tholos sostenuta da finte colonne. Tutt’intorno gli chott, i laghi salati, superfici in parte sabbiose, in parte acquitrinose, in parte di un bianco abbacinante dove si raddoppiano le montagne e appaiono miraggi.

La visita di Djemila inizia in discesa dal museo, le cui pareti, completamente ricoperte di mosaici, stordiscono. Ma lo stordimento è prodromico all’affaccio sul sito archeologico. La città antica si sviluppa, non come Timgad in pianura né come Tiddis su un erto pendio, ma in leggera discesa, seguendo un morbido colle, che il visitatore percorre in senso contrario alla cronologia: prima la parte paleocristiana, con una basilica le cui pietre recano croci e simboli cristiani, poi la parte tardo romana, con l’arco di Caracalla e il foro, dove un’ampia scalinata conduce a un tempio praticamente integro, in posizione sghemba rispetto al quadrato della piazza; ancora più giù, sottopassando un paio di archi, il mercato, con i banchi di vendita meravigliosamente scolpiti, un secondo foro e altri templi. Intorno il verde dei campi primaverili è quasi nascosto dal giallo intenso della colza, punteggiato di papaveri in una mescolanza irripetibile.

Cherchell è una piacevole città moderna, di basse e graziose costruzioni, costruita sopra la città romana, per cui le murature degli edifici consentono la vista di materiali di riutilizzo, una piazza svela gli scavi del teatro, l’edificio termale è interrotto da moderni condomini. Ma la piazza del paese è un’emozione indicibile: al centro una fontana con elementi antichi in una originale composizione, sulle panchine siedono anziani a godersi il sole e a leggere i quotidiani e a scambiare due parole, sul lato destro il museo archeologico con una collezione di sculture romane senza eguali in Nord Africa (il museo più significativo dell’Algeria, senza dubbi), alle spalle una chiesa neoclassica (simile a un piccolo Partenone) divenuta moschea con le necessarie fontane per le abluzioni in cortile, sul lato sinistro case e ristoranti locali, di fronte lo spettacolo vero, il Mediterraneo oltre il piccolo porto, incuneato al di sotto di una vertiginosa scarpata.

Tipasa è tutelata dall’Unesco in quanto le rovine della città romana, che lambiscono il mare, sono all’interno di un’area di intatta macchia mediterranea con alberi e arbusti pieganti dal vento che soffia verso terra: le pietre squadrate aranciate esaltano il blu di mare e cielo e i verdi della vegetazione. Un giro in barca consente di arrivare a una piccola grotta marina con stalattiti e sassi tondeggianti rosa su una minuscola spiaggetta nel fondo, ammirando, durante il tragitto, quel che resta di un hotel progettato da Ferdinand Pouillon sulla spiaggia, in perfetta armonia con il luogo (a contrasto, subito dietro, il deturpante contrasto degli edifici successivi).

Constantine la “città dei ponti” è costruita su uno dei siti più impressionanti mai visti: un piccolo altipiano solcato da un canyon profondo quasi duecento metri, dove scorre un fiume impetuoso di acque cristalline. Numerosi ponti scavalcano arditamente il burrone per unire le due sponde e i quartieri periferici al centro. Una vertigine che accompagna il passeggio nella casbah, ancora abitata e vissuta, arrivando sempre sul ciglio del baratro: si ha quasi l’impressione di perdere l’equilibrio. Da non perdere la moderna, enorme, stupefacente moschea (all’interno un’oasi di pace e silenzio che favorisce la meditazione), ma il teatro, che risale a metà Ottocento e più di ogni altra cosa vorrei visitare all’interno, è chiuso per restauri (mi consolerò con il teatro Nazionale di Algeri, bellissimo fuori ma spoglio all’interno, solo un paio di anonime balconate sopra la platea). Il Ramadan aveva svuotato strade e piazze, chiuso negozi e ristoranti, confinato alla notte la vita sociale: all’improvviso a Constantine l’annuncio della fine del mese di digiuno, la piazza e le vie della casbah si affollano, negozianti e ambulanti vendono fin sulla strada e ben oltre i marciapiedi, una folla saluta un nuovo inizio con canti, musica e persino fuochi di artificio, una festa collettiva euforica e contagiosa.
Una nuova esperienza interessante e bella
Viaggio fuori dal comune nuova esperienza affascinante